Catarsi

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di Federica Pace*

 

Federica Pace è una giovane ragazza affetta da miopatia ereditaria a corpi inclusi che, in un articolo postato sul blog Serata Alternativa (dal quale è tratto il testo che, per gentile concessione, riproponiamo di seguito), spiega cosa comporta avere una disabilità, e per di più una malattia rara, nel rapporto con la gente comune e con gli organi competenti. Cosa vuol dire essere nessuno ma avere, paradossalmente, qualcuno che si arroga il diritto di giudicare e di stabilire quale possa essere la tua vita? Cosa vuol dire sopportare le domande e i commenti indiscreti e non riuscire a dire ciò che, in fondo, non riusciamo ad ammettere neanche a noi stessi? Con parole forti e spiazzanti, Federica spiega questa situazione fin troppo comune, e alla fine invita a superare il momento di disperazione, ad accettare e ad andare avanti. In un testo crudo e delicato che mette davvero i brividi. (Silvia Lisena)

 

Stefano Cordaro, Catarsi, 2002. Stefano Cordaro, Catarsi, 2002.

 

«Evolviamo sicuramente in qualcosa di meglio, ma prima di evolvere crediamo di devolvere disperatamente. Devolviamo quando finite le visite, avuta la diagnosi, dopo aver scoperto che non esistono cure, ci si rapporta con il mondo. Alle domande: “Che hai alle gambe?” Non sappiamo cosa rispondere eppure la risposta c’è. Non ci siamo fatti male, anche se male ne proviamo parecchio e non ci sembra di avere molta scelta. Non ci sono antibiotici da prendere, non basta un antidolorifico, non ci sono baci sulla bua che fanno passare tutto.

Gli altri erano qualcosa di troppo da sopportare se già non mi sopportavo e non sapevo come fare per non girare le spalle, per non nascondermi al mondo, per accettare che il cambiamento era inevitabile. Tutti i miei diritti, i nuovi diritti che mi aspettavano non riuscivo neanche a desiderarli ardentemente. Se avessi potuto sarei uscita dal mio corpo e me ne sarei andata in giro per il mondo come essere invisibile. Lo pensai fin quando non mi ritrovai a fare i conti con l’incompetenza più disparata, in piscina quando l’istruttrice leggendo la diagnosi ci chiese cosa mangiassimo perché i nostri muscoli scomparsi sono stati sostituiti da strato adiposo. Quando i miei colleghi pur vedendomi in difficoltà mi spingevano per prendere posto a lezione, quando ho inciampato in qualsiasi strada ondulata e fossa di Catania e la gente rimaneva a fissarmi, quando ho dovuto fare i conti con la mia città inagibile. Ma che uscivo a fare? Per dire no, non posso? Per chiedere a estranei un minimo di aiuto, per urlare di considerarmi? E chi ce l’aveva questa forza? Per sentirmi un impedimento, un peso? Stavo devolvendo!

Le visite all’INPS poi… luoghi ameni con gente che se ti guarda negli occhi è già tanto, più incazzati di me, più rabbiosi di me che malata stavo di fronte a loro. Della mia malattia, delle malattie rare sanno esattamente meno di me. Siamo rari, casi particolari e precisi, così precisi da avere a stento un nome. Leggono quelle carte e si spera che capiscano che qui non giochiamo mica, che non salteremo all’improvviso appena usciti da lì. Ma si sa, anni e anni di pensioni e accompagnamenti dati a chiunque fosse capace di nascondere 3000 euro dentro un panino da offrire al migliore falsificatore, devono pur essere riabilitati. Se prima a chiunque adesso a nessuno per esserne sicuri, tanto si può sempre chiedere l’aggravamento, fare ricorso. Sono loro che percentualizzeranno i miei sintomi, che decideranno quanto della mia vita sia stato reso difficile dalle conseguenze della malattia. Ci esamineranno con non curanza e non ci ascolteranno mentre tentiamo di spiegare che se c’è freddo le mie amiche mi abbottonano i pantaloni perché con le mani ghiacciate non riesco. Tentiamo di spiegare che sì, guido, ma ho l’acceleratore e il freno sul volante. Sola esco se devo rimanere in auto, ma in auto mi ci accompagnano, non esco dall’auto se non c’è qualcuno che mi aiuta. Magari li rincontreremo quei medici alla visita per la patente e ci chiederanno chi mai ci ha dato una percentuale così bassa: Lei, Dottoressa è stata lei!

Le carte parlano, sì, a volte, non sempre se c’è un disguido comunicativo. Non ha alcuna importanza se dentro quella stanza c’è una confusione che fa impazzire e non si sente quello che dicono e soprattutto quello che noi diciamo a cui potrebbero non credere. Bisogna essere educati, la voce calma e bassa, le parole prive di lame, “chiamare i propri diritti” senza sfoggiare la propria intelligenza offesa. Così magari si può trovare un accordo sul significato di movimenti fini. Devolvere non è la scelta migliore ma evolvere con eleganza è difficile.»

* Il presente testo è già stato pubblicato, il 24 gennaio 2016, sul blog Serata Alternativa con il titolo “Prima di evolvere”. Lo riproponiamo, per gentile concessione, con lievi adattamenti al contesto. Tutti i grassetti contenuti in esso sono un intervento della redazione.

 

Ultimo aggiornamento: 2 febbraio 2016

Ritratto di lan-s=d2KZu

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