Il caso Toffa: quando la malattia viene esaltata (troppo)

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A cura di Silvia Lisena

 

Nadia Toffa, storica conduttrice de Le Iene, ha avuto il cancro. E lo ha sconfitto. Nel giro di un paio di mesi. Lo ha raccontato in diretta mostrando commozione e sorrisi, ed includendosi nella cerchia dei “fighi pazzeschi” che, secondo lei, sono i malati di cancro. Ancora una volta, si è incorsi nell'errore di usare parole troppo grandi in un discorso che contiene molte sfumature diverse, assolutamente non generalizzabili. Ed inoltre, nuovamente, vi è la paradossale stigmatizzazione della malattia come un valore aggiunto che conferisce un superpotere a chi la vive. Ma non possiamo semplicemente applicare l'antico motto “vivi e lascia vivere”?

 

Nadia Toffa, Daria Bignardi e Sabrina Scampini. Cos'hanno in comune queste tre donne, protagoniste del mondo televisivo e giornalistico? Ebbene, come titola la maggior parte dei blog e quotidiani, in questi giorni hanno rivelato di aver avuto un cancro. Un coming-out, esattamente come quello sull'omosessualità e quello sulle molestie sessuali.

Tutte e tre hanno avuto il cancro, tutte e tre adesso stanno bene, tutte e tre predicano la prevenzione e la funzionalità della chemio e della radioterapia, tutte e tre non se ne vergognano. Parole della Toffa: “Noi malati di cancro siamo dei guerrieri, dei fighi pazzeschi!”.

Siccome per indole io sono Bastian Contrario, vorrei spiegare perché, a mio parere, questa frase stona.

Innanzitutto, come fanno notare anche i vari articoli polemici in risposta al coming-out della Toffa, lascia un po' sbigottiti il fatto che in un paio di mesi lei abbia risolto tutto – e non si trattava di una cisti al polso bensì di un tumore. Nel senso, mi congratulo con lei e le faccio indubbiamente i miei migliori auguri, ma la sua esperienza non corrisponde alla realtà. Io, come molte altre persone, ho avuto parenti e conoscenti che hanno o hanno avuto un tumore: oltre a non avercela fatta, lo hanno vissuto in maniera non così semplicistica come la Toffa vuol fare apparire. Il cancro ti corrode, ti pervade, distrugge la tua identità e può tornare a ricolpirti a tradimento quando pensavi di essertelo finalmente scrollato di dosso. Il cancro fa paura: non è solo la parrucca, non è solo la chemio, non è solo la vergogna di rivelarlo in giro onde evitare di essere etichettati come “malati”. Il cancro è una realtà, ci sono fior fiore di ricerche scientifiche dietro, e ogni persona che ne è affetta porta con sé un mondo che va oltre tutto questo. Un baratro di incertezze, delusioni, speranze, ricordi, ansie che non può essere sintetizzato e minimizzato con: “Ho avuto il cancro, uff che paura! Ma ho fatto le cure e in due mesi si è risolto tutto, siamo grandi!”. Il cancro, e tutto ciò che comporta, esige rispetto.

La seconda obiezione riguarda i “guerrieri, fighi pazzeschi” che la Toffa pensa che siano i malati di cancro (come lei, o lei è ex perché è ormai guarita?). Non ci sta. E non perché coloro che hanno il cancro sono o devono essere tutti depressi e rassegnati, anzi. Ma perché questa definizione comporta la caduta in un vortice di errore madornale: l'esaltazione della malattia. I malati sono O depressi/vittimisti/rabbiosi O guerrieri/supereroi/esempi di vita/fighi pazzeschi/miracolati/tistimers (cioè i destinatari del “ti stimo!”): questa rigida dicotomia, priva di una qualsiasi via di mezzo, sinceramente mi disorienta molto. Perché sembra che le numerose lotte per dimostrare che ogni condizione di diversità è, appunto, una condizione di vita e non un fatto straordinario (dove tale aggettivo sussume in sé la doppia accezione, positiva e negativa) davanti a questi episodi perdano totalmente il loro significato.

Cara Nadia, eppure ci sei passata... Dovresti sapere che non è il cancro a rendere guerrieri, non è saper affrontare la vita nonostante una malattia o una disabilità a rendere supereroi. Da quando saper vivere è un atto straordinario, cioè fuori dall'ordinario? Non sto dicendo che vivere il cancro e vivere una disabilità o un'altra malattia siano cose coincidenti. Sto dicendo che la scelta di vivere e non di sopravvivere non deve essere brandita come un'impresa eroica.

Io non penso che ci voglia coraggio a vivere. Forse ci vuole un po' di coraggio a non vivere, a guardare il cielo ogni mattina e a non lasciarsi pervadere dal calore dei raggi del sole, a non ricercare la gioia nel sorriso di una persona cara, a non rischiare per provare un'emozione. Ma chi vive sta semplicemente vivendo la sua vita come ha scelto di volerla vivere, e non ha bisogno certo di essere posto su un piedistallo.

Perché, cara Nadia, in fondo la bellezza più autentica non richiede un'eccessiva celebrazione: non è un surplus, ma risiede proprio nella normalità che, silenziosamente, esiste.

Ritratto di gruppodonneuildm

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