Prevenzione, occorre cogliere i pezzi che ancora ci mancano

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Simon Morris, Anfitrite, sirenetta in bronzo posta nei fondali della barriera corallina delle Isole Cayman nell’ottobre del 2000. Simon Morris, Anfitrite, sirenetta in bronzo posta nei fondali della barriera corallina delle Isole Cayman nell’ottobre del 2000.

 

Prendendo spunto dalle riflessioni di Simona Lancioni, pubblicate nella pagina web del Gruppo donne UILDM, e riguardanti la possibilità di concepire o mettere al mondo figli da parte di persone con malattie ereditarie, Salvatore Nocera scrive: «Credo che un problema anch’esso delicato sia di assumersi o meno la responsabilità di mettere al mondo una persona che non si sa come reagirà alla propria disabilità. E questo è un dubbio talora ancor più lancinante di quello che riguarda le proprie scelte etiche». Pubblichiamo di seguito il testo di Nocera e la replica di Lancioni che introduce ulteriori elementi.

 

 

Come reagirà alla propria disabilità?

di Salvatore Nocera *

Sono rimasto molto stimolato dall’interessantissimo articolo di Simona Lancioni, pubblicato nella pagina web del Gruppo donne UILDM e intitolato “La prevenzione delle patologie neuromuscolari”, perché pone una serie di quesiti assai intriganti circa la possibilità di concepire o mettere al mondo figli da parte di persone con malattie ereditarie. E ciò non solo con riguardo alle malattie neuromuscolari, da cui prende spunto quel testo, ma in generale nei confronti di tutte le malattie ereditarie, come ad esempio la retinite pigmentosa che porta alla cecità assoluta, la sordità ereditaria e così via.

Ebbene, ritengo che i problemi non riguardino soltanto la decisione assai difficile se interrompere o meno la gravidanza, in caso di accertata sicurezza o forte probabilità della nascita di un figlio con disabilità, ma anche quella meno traumatica, ma forse assai più sottile, sul fatto se il nascituro accetterà il proprio stato.

Quanto al primo grossissimo problema, la prospettazione laica di Lancioni a me, cattolico, sembra pienamente condivisibile, lasciando alla libera scelta della madre la decisione se abortire o meno, con queste parole: «Chi, per un qualunque motivo, ritiene che la vita sia inviolabile sin dal concepimento, oppure pensa che la presenza di una patologia fetale non sia una ragione valida per interrompere una gravidanza, fa benissimo a fare scelte in armonia con il proprio sentire. Chi invece, esaminando la propria personale situazione, non se la sente di portare a termine un percorso intrapreso, fa altrettanto bene a fermarsi». Questo, infatti, riguarda la scelta della madre con riguardo a se stessa e ai problemi etici della sua coscienza, vissuti secondo la sua personale e incoercibile responsabilità. A me, però, interessa di più l’altro ordine di problemi, concernente, come detto, la situazione esistenziale del figlio, quando prenderà consapevolezza della propria disabilità e come la saprà vivere.

Penso dunque a chi, prima ancora del concepimento, si pone il problema se procreare o meno. Un rifiuto di concepimento, come accenna Lancioni, potrebbe far sorgere il sospetto che la donna o l’uomo non accettino la situazione esistenziale del partner con disabilità. E questo problema psicologico è vissuto sempre dalla parte dei possibili procreatori. Ma credo sia doveroso porsi pure il problema dal punto di vista del nascituro e, ripeto, su come egli accetterà il suo stato.

Ovviamente le condizioni di contesto culturale, sanitario e sociale in cui verrà a vivere saranno variabili importanti circa l’ipotesi di una maggiore o minore accettazione. Ma, a mio avviso, rimane sempre l’interrogativo: come mio figlio vivrà la sua consapevolezza di essere persona con disabilità, anche indipendentemente dall’“addebitarla” ai genitori?

Personalmente ritengo di non condividere la posizione intellettuale di chi ritiene che “disabile è bello”, come ad esempio fanno i componenti del gruppo americano di “Orgoglio Sordo” (Deaf Pride), i quali, sordi, si impegnano a non sottoporsi ad alcun intervento sanitario per acquistare l’udito, essendo orgogliosi di questo loro stato.

E anche Lancioni mi pare non condivida la tesi di quanti ritengono doveroso il ricorso a tecniche preventive, con ciò per nulla rifiutando lo stato di disabilità del partner. Scrive infatti: «Ma le coppie interessate da patologie genetiche che, nel momento in cui decidono di avere un figlio, intraprendono un percorso di prevenzione delle proprie malattie sono intenzionate a disconoscere il diritto alla vita delle persone con disabilità? Pensano che la stessa vita del/la partner disabile sia indegna di essere vissuta? Decisamente no! Prova ne sia che molte di loro sono attive nella promozione della vita piena, integrata, consapevole e completa delle persone con disabilità».

A seguito delle indagini preventive, quindi, ogni coppia o partner decide, ovviamente con minori timori in caso di percentuali scarse di nascite con disabilità, meno serene e assai più travagliate in presenza di percentuali molto più alte o addirittura di certezza. Da parte mia condivido l’opinione che il rifiuto di procreare in tali circostanze non sia né una discriminazione verso le persone con disabilità, né un mancato discernimento tra “persona in potenza” o “persona in atto “. Ribadisco invece che qui il problema assai delicato sia di assumersi o meno la responsabilità di mettere al mondo una persona che non si sa come reagirà alla propria disabilità. E questo è un dubbio talora ancor più lancinante di quello che riguarda le proprie scelte etiche.

 

* Presidente nazionale del Comitato dei Garanti della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) della quale è stato vicepresidente nazionale.

Il presente testo è già stato pubblicato il 19 luglio 2016 (ultimo aggiornamento: 20 luglio 2016), su Superando.it, il portale promosso dalla stessa FISH, e viene qui ripreso per gentile concessione, con lievi adattamenti al diverso contesto.

 

 

Solo una riflessione collettiva può darci una visione d’insieme

di Simona Lancioni *

Ringrazio sentitamente Salvatore Nocera per aver deciso di contribuire al dibattito sul tema della prevenzione delle patologie ereditarie, allargando la riflessione anche a patologie diverse da quelle neuromuscolari. Io ho volutamente ristretto il campo solo a queste ultime perché sono quelle che conosco meglio, sia per motivi personali (il mio compagno di vita è interessato da una forma di amiotrofia muscolare spinale), sia per la mia esperienza più che ventennale alla UILDM. Non ritengo che il semplice elemento dell'ereditarietà mi autorizzi a credere che la riflessione in ordine ad altri tipi di patologie ereditarie sia automaticamente "sovrapponibile" alla mia, penso invece che possano esserci delle valutazioni simili, ma preferirei che le esprimessero - se si sentono di farlo - coloro che hanno esperienza e conoscenza diretta, o molto ravvicinata, delle altre patologie.

Quello della prevenzione delle patologie è un tema difficile, spesso doloroso, che le coppie si trovano ad affrontare in solitudine. Ho conosciuto coppie che hanno scelto di avere più figli con disabilità, e ne ho conosciute altre che hanno scelto di prevenirne la nascita attraverso le indagini prenatali e l'aborto terapeutico. Qualcuna sta tentando un percorso con la procreazione medicalmente assistita (pma). Nessuna di esse ha agito a cuor leggero. Ed, onestamente, non saprei valutare chi ha fatto la "scelta più giusta". Mi sembra più corretto dire che hanno fatto la scelta che procurava loro meno dolore. Quella più sopportabile per loro.

Nocera, correttamente, si interroga circa l'eventualità che il nascituro accetti o meno il proprio stato di disabilità. Non credo sia possibile rispondere alle domande esistenziali di persone inesistenti o, se si preferisce, ipotetiche. Possiamo però osservare come vivono le persone con disabilità esistenti. Così scopriamo che alcune di esse (voglio credere che siano la maggioranza, ma in realtà non lo so) sono riuscite a trovare un equilibrio soddisfacente, o, quanto meno, accettabile. Un equilibrio instabile e soggetto a continue "contrattazioni" dal momento che questo tipo di patologie sono ingravescenti. Altre persone, invece, quell'equilibrio non lo hanno mai raggiunto, oppure lo hanno raggiunto e poi lo hanno smarrito assieme alla perdita di autonomia, alla progressiva paralisi dei muscoli, alle difficoltà respiratorie, o, ancora, assieme alla morte di un fratello o di una sorella con la stessa patologia. Uno specchio così crudele e spietato da sembrare forgiato da un "Principe del Male".

Credo che di nessun figlio o figlia (ma neanche di nessuna persona con o senza disabilità) si possa dire a priori se sarà felice o meno, e dunque, anche in questo caso, possiamo solo interrogare la nostra coscienza, la quale, almeno in teoria, dovrebbe essere più perscrutabile. È la nostra coscienza a suggerirci se  - nella specifica situazione, in quel dato momento della vita, considerando l'intesa di coppia, le risorse (non solo economiche) disponibili, la presenza o meno di una rete di riferimento e di supporto, la propensione e l'idoneità ad assumere il ruolo di caregiver (ossia a prestare assistenza continuativa)... - davanti a quel bivio dovremmo prendere una direzione o l'altra, ben comprendendo che in nessun caso ci è dato di sapere prima dove ci condurrà la strada intrapresa.

C'è poi un altro tema al quale mi preme accennare. Io lo chiamo il "dolore senza nome". È quello che provano i genitori che sopravvivono ai propri figli, giacché alcune patologie neuromuscolari hanno come esito una mortalità precoce. Se perdi i genitori sei orfano/a. Se perdi un coniuge sei vedovo/a. Ma se perdi un figlio cosa sei? Non c’è un termine che ti definisca, e per di più ti senti annientato/a. Ecco, forse potrebbe aiutare iniziare a nominarlo quel dolore, non per lenirlo - non credo basti un nome per fare questo -, ma almeno per sfuggire quella sorta di "universo parallelo" in cui finiscono le persone che lo sperimentano. Un "universo" che essendo innominato, finisce col rendere invisibile chi lo abita. Non credo sia corretto parlare di prevenzione senza parlare anche di questo, per il semplice motivo che la speranza di vita è un elemento di valutazione abbastanza rilevante per le coppie che desiderano avere un figlio. E se brevità non è sinonimo di insignificanza – chi si occupa di disabilità lo sa benissimo –, il timore di uscire devastati da questo tipo di esperienza non è privo di una sua consistenza.

So perfettamente di non avere una risposta soddisfacente per neanche uno degli aspetti a cui ho accennato. Infatti, per ognuno di essi è possibile esprimere argomentazioni opposte, tutte eticamente plausibili. Pertanto non credo che sia realistico e nemmeno desiderabile aspettarsi che un’unica risposta possa andar bene per persone e situazioni completamente differenti. Credo invece – e lo credo fortemente – che solo una riflessione collettiva possa accrescere la consapevolezza su questi temi, giacché siamo esseri parziali e condizionati dalle nostre esperienze, e solo nel confronto possiamo sperare di cogliere quei pezzi che ancora ci mancano, ma che sono indispensabili per avere una visione d’insieme.

 

* Componente del Coordinamento del Gruppo donne UILDM

 

 

Ultimo aggiornamento: 21 luglio 2016

Ritratto di lan-s=d2KZu

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