Stare di casa nella città: donne con disabilità

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a cura di Simona Lancioni

 

«Stare di casa nella città: donne con disabilità» è il nome di un interessante progetto avviato nella città di Ravenna, e finalizzato ad indagare il rapporto fra donne con disabilità e città reale, soffermandosi in particolare sulla mobilità e la sicurezza urbana.

 

 

Un disegno stilizzato raffigura un ambiente notturno, con diversi palazzi, qualche lampione, uno spicchio di luna, e poche stelle. Logo del progetto «Stare di casa nella città: donne con disabilità».

 

La progettazione e l’organizzazione delle città e dei servizi dovrebbero considerare le diverse caratteristiche e le esigenze di chi abita e fruisce di quei luoghi. Una donna che deve conciliare i tempi di vita con quelli lavorativi, avrà esigenze e tempistiche diverse da quelle di un uomo che può permettersi di occuparsi solo del lavoro. Persone con disabilità diverse avranno bisogno di strutture e servizi per la mobilità dotati di accorgimenti di accessibilità diversi. E considerazioni analoghe potrebbero essere fatte in relazione a molte altre diversità umane, alle diverse età, alle diverse nazionalità, alle diverse religioni, alla maggiore o minore disponibilità economica delle persone, e ad altre differenze ancora. Il progetto «Stare di casa nella città: donne con disabilità», promosso dalla Casa delle donne di Ravenna - Associazione Liberedonne, e sostenuto dagli Assessorati “Politiche e cultura di genere” e “Partecipazione” del Comune di Ravenna, intende riflettere ed individuare gli elementi caratterizzanti, per criticità e risorse, il rapporto fra donne con disabilità e città reale, soffermandosi in particolare sulla mobilità e la sicurezza urbana.

La determinazione a centrare l’area di indagine sulle donne con disabilità scaturisce dalla considerazione che esse sono esposte ad una discriminazione multipla, ingenerata dall’essere discriminate sia in quanto donne, sia un quanto disabili. Questo tipo di discriminazione è, a sua volta, distinta in tre categorie: discriminazione additiva, amplificatrice e intersezionale. Piera Nobili (architetta, vicepresidente del CERPA – Centro Europeo di Ricerca e Promozione dell'Accessibilità – Italia Onlus, contitolare dello Studio Othe di Ravenna, donna molto attenta alle questioni di genere) illustra in modo efficace queste tre categorie: «Una è la discriminazione additiva, che risulta da più fattori disgiunti tra loro. Un esempio di questo tipo di discriminazione è dato dalla donna che lavora e percepisce circa un 30% in meno di stipendio rispetto all’uomo a parità di mansioni; la stessa donna, se è anche disabile, paga un premio assicurativo superiore in quanto disabile. Quindi abbiamo due discriminazioni distinte tra di loro e che sono causate da due motivi differenti (l’essere donna e l’essere disabile), ma che in lei sono entrambe presenti.

L’altra discriminazione è quella amplificatrice, in questo caso i fattori discriminanti agiscono per sommatoria. Ad esempio, una donna con disabilità in quanto donna non vivrà certi luoghi perché li ritiene insicuri, non si recherà al parco nelle ore serali e notturne, ed al contempo non vivrà quello stesso parco perché inaccessibile, non usabile. Qui la discriminazione si moltiplica in quanto donna ed in quanto disabile. Infine abbiamo la discriminazione intersezionale; questo tipo di discriminazione esiste quando i fattori discriminanti non sono separabili perché interagiscono tra loro. Un esempio: una donna con disabilità in quanto donna e in quanto disabile proprio per intersezione tra queste due categorie vede negati molto spesso alcuni diritti, ad esempio il diritto alla salute e alla prevenzione, perché trova degli ostacoli ambientali barrieranti sotto diversi profili. Gli stessi screening (mammografico, pap text, visite ginecologiche), che qualunque donna in Italia ormai svolge con una certa abitudine, spesso sono molto discriminanti per le donne con disabilità perché né gli spazi, né le attrezzature tengono conto delle loro necessità. La mancanza di accorgimenti specifici accresce il disagio delle donne disabili nell’effettuare gli screening, che sono poco piacevoli per qualsiasi donna, sino al punto da rendere veramente difficoltoso l’accesso alla prevenzione e alla salute. Il problema non sono solo i luoghi e le attrezzature, è spesso anche lo stesso personale che non è accorto, non è preparato ad accogliere donne con disabilità che svolgono visite non solamente di ordine ginecologico, ma ad esempio, anche oncologiche.

Anche i tempi di visita non tengono presente le esigenze collegate alle donne con disabilità, in quanto generalmente non vengono coniugati con i tempi di vita o semplicemente di spostamento troppo spesso dipendente da altri (parenti, amici, servizi). Oppure ci sono donne con un proprio nucleo familiare e che acquisiscono una disabilità in età adulta, che devono mediare i tempi personali, legati anche alla disabilità, con quelli del sociale (scuola, trasporti, commercio, sanità, lavoro, ecc.) e dei familiari» (fonte: intervento nell’ambito del seminario “Progettare per tutti”, organizzato dal centro Informare un’h, Peccioli, 23 novembre 2012).

Il progetto, che prevede l’uso di interviste narrative, si pone come obiettivo il coinvolgimento di ameno 50 donne, sia nate disabili, sia divenute disabili; il target di persone coinvolte sarà quanto più possibile rappresentativo della situazione anagrafica della città di Ravenna (e quindi coinvolgerà donne di diverse età, nazionalità, forme di disabilità).

«Stare di casa nella città» è stato avviato nei primi mesi del 2016, e dovrebbe concludersi il prossimo settembre. Questi i riferimenti per chi volesse collaborare o, semplicemente, approfondire: Associazione Liberedonne, Casa delle donne, Via Maggiore 120, 48121 Ravenna, tel. 0544-461934, e-mail: casadelledonneravenna@gmail.com.

  Ultimo aggiornamento: 23 febbraio 2016

Ritratto di lan-s=d2KZu

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