Un doppio sguardo sulla città

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Il 3 dicembre scorso sono stati presentati pubblicamente i risultati del progetto “Stare di casa nella città: donne con disabilità”, promosso, a Ravenna, dall’Associazione Liberedonne e finanziato dal Comune della città romagnola. In rete è già possibile trovare il testo del rapporto di ricerca che ne è scaturito, e una sintesi dello stesso. Ciò che proponiamo in questo spazio è una riflessione su alcuni aspetti significativi scaturiti dall’indagine.

 

L’esterno del Mausoleo di Galla Placidia, risalente alla prima metà del V secolo, uno dei monumenti simbolo della città di Ravenna. L’esterno del Mausoleo di Galla Placidia, risalente alla prima metà del V secolo, uno dei monumenti simbolo della città di Ravenna.

 

«Guarda che il bagno è predisposto per le persone con disabilità.»

«Non direi. Chi ha una disabilità motoria derivante da una patologia neuromuscolare come la mia, per utilizzare il bagno ha bisogno di un lettino ribaltabile su cui potersi stendere. Gli uomini possono ovviare, almeno in parte, a questa esigenza usando il pappagallo, ma noi donne no. Il fatto che questo accorgimento di accessibilità non sia mai previsto nei luoghi e nei locali pubblici, o aperti al pubblico, dimostra che i progettisti prestano scarsa attenzione alle differenze di genere. Su questo fronte il loro estro creativo arriva la massimo a pensare che i bagni accessibili dovrebbero essere due – uno per gli uomini, e l’altro per donne –, come per le altre persone, ulteriori differenze non sono considerate, pertanto io continuerò a non poter utilizzare neanche i bagni “predisposti per le persone con disabilità”, e a misurare la mia autonomia usando come metro la capienza della mia vescica.»

Questo scambio, risalente a diversi anni fa, mi torna in mente mentre leggo il rapporto conclusivo del progetto “Stare di casa nella città: donne con disabilità”, e, lo ammetto, un po’ mi viene da sorridere al pensiero che finalmente qualcuno/a si sia disposto a scrutare l’ambiente urbano cercando di cogliere e conciliare un doppio sguardo: quello femminile, e quello di chi ha una disabilità. «Stare di casa nella città» è un progetto ideato dalla Casa delle donne di Ravenna – Associazione Liberedonne, finanziato dal Comune della città romagnola, e realizzato allo scopo di riflettere ed individuare gli elementi caratterizzanti, per criticità e risorse, il rapporto fra donne con disabilità e città reale, soffermandosi in particolare sulla mobilità e la sicurezza urbana. L’iniziativa ha coinvolto, senza intermediazioni, sia donne con disabilità, che madri con figli/e disabili, in un percorso di ascolto, confronto e rielaborazione partecipata. In specifico il progetto ha cercato di rispondere alle seguenti domande: quanto è inclusiva, accessibile, usabile e sicura la città di Ravenna per le donne con disabilità che in essa vivono e lavorano? Come sono vissute e/o percepite le coordinate spazio/tempo? Cosa significa organizzare la vita quotidiana, la socializzazione e la partecipazione alla città? Per rispondere ad esse sono stati realizzati due focus group, e 24 interviste individuali effettuate presso il domicilio delle donne che si sono rese disponibili a collaborare.

In questo spazio non voglio riassumere i risultati dell’indagine, questo lavoro è già stato fatto egregiamente da altri. Ciò che intendo fare è riflettere su alcuni aspetti scaturiti dal progetto che considero significativi. La realizzazione del progetto ha incontrato una serie di difficoltà. Una di queste è certamente costituita dall’inclinazione, ancora largamente maggioritaria, a considerare il genere come una variabile neutra. Questo atteggiamento impedisce che questo dato sia rilevato, venga sottoposto ad un adeguato vaglio critico, e, conseguentemente, che le donne con disabilità siano riconosciute come cittadine con bisogni propri, non riconducibili/sovrapponibili a quelli degli uomini con disabilità. Se uomini e donne con disabilità hanno innegabilmente una certa quantità di necessità comuni, ve ne sono altre che non sono affatto comuni e che solitamente non sono colte. Gli uomini e le donne disabili potrebbero avere in comune, ad esempio, la difficoltà ad uscire la sera per la carenza di servizi di trasporto pubblici accessibili e per la presenza di barriere architettoniche, ma le donne avranno anche fondati motivi di ponderare con maggiore attenzione l’opportunità di uscire la sera se la zona in cui intendono recarsi è scarsamente illuminata e poco frequentata. Non rilevare questo dato, considerarlo marginale, comportarsi come se “uomo o donna, se sei disabile, che differenza vuoi che faccia?”, porta ad un’oggettiva riduzione dell’autonomia delle donne, oppure ad una loro incauta esposizione al rischio di subire violenza. Si legge nel rapporto conclusivo del progetto: «È stato difficile far comprendere alle associazioni di disabili, alle cooperative sociali, agli amministratori perché le destinatarie del progetto fossero le donne con disabilità e non genericamente i disabili. L'idea della disabilità come elemento totalizzante della vita restituisce un'immagine neutra, e quindi maschile, della disabilità, appiattendo così le differenze di genere presenti tra le persone a prescindere dalla loro disabilità. Non solo è ormai assodato da numerose ricerche internazionali che uomini e donne si spostano e usano la città in modo profondamente diverso ma è anche evidente che sono le donne le più penalizzate nel vivere, nel muoversi e nello stare in ogni parte della città. Le donne debbono ancora far fronte alla pressione della vita quotidiana non solo propria ma anche di coloro affettivamente legati (mariti, figli, genitori, parenti, amici, ecc.) e a maggior ragione in questo tempo in cui la crisi sta modificando le nostre vite, le famiglie, il lavoro, le forme della socialità» (pag. 8, grassetti nostri nella citazione). Una lettura che trova conferma in alcune delle dichiarazioni rilasciate delle donne e riportate nel rapporto, come queste due riguardo al ruolo genitoriale: «Non si pensa mai al fatto che ci sono tanti disabili che hanno figli. La cura dei figli è più impegnativa: andare a prendere i figli da scuola significa “troverò il parcheggio?”, le insegnanti sono disponibili a infrangere il protocollo e ad accompagnare i bambini verso la madre che magari non riesce ad arrivare fino dentro alla scuola. […]. Queste madri devono essere aiutate di più. Adesso è tutto sulla buona volontà del singolo ma ci vogliono delle disposizioni» (pag. 26-27), e «Mia figlia mi ha completamente annullata» (pag. 37); o quest’altra in tema di sicurezza: «Mi preoccupa un po’ se è sera tardi fare quel pezzo, è molto buio. Raramente vado in giro da sola […] La vulnerabilità è dovuta al fatto di essere donna, di vedere molto poco, che è una cosa che mi crea problemi di continuo» (pag. 36); o, ancora, questa sul genere femminile: «Le donne sono già handicappate così come sono e lo diventano doppiamente quando hanno un handicap vero» (pag. 37).

Originariamente la ricerca prevedeva almeno 50 interviste individuali, tuttavia, in concreto, come già accennato, ne sono state realizzate 24. Può capitare, sono però interessanti le motivazioni che hanno portato a questo risultato: le donne con disabilità «hanno una vita quotidiana impostata più per imprevisti e probabilità che non per certezze e impegni sicuri. Sul desiderio di partecipazione delle donne con disabilità infatti agiscono e incidono moltissime componenti, gran parte delle quali appunto, imprevedibili: lo stato di salute, le cure, le terapie, i ricoveri; le condizioni meteorologiche e del clima; la disponibilità di accompagnatori e accompagnatrici; la disponibilità di mezzi di trasporto pubblico; gli ordinari carichi di cura della famiglia e della casa; lo stato d'animo, le ansie, i timori, le preoccupazioni. Una enorme stratificazione di complessità che condiziona le volontà e i desideri e che sfugge a chi si avvicina per la prima volta al mondo della disabilità femminile» (pag. 8, grassetti nostri nella citazione). Intendiamoci, la vita di ciascuno di noi è soggetta all’imprevisto, basta incappare in un incidente automobilistico ed in un cantiere stradale per arrivare al lavoro con 45 minuti di ritardo (mi è successo questa mattina), ciò che fa riflettere è che per le donne con disabilità l’imprevisto è la regola; e se è vero che alcuni fattori (come, ad esempio, lo stato di salute, le cure, le terapie, i ricoveri; le condizioni meteorologiche e del clima; la disponibilità di accompagnatori e accompagnatrici; la disponibilità di mezzi di trasporto pubblico, ecc.) potrebbero essere ugualmente inibenti anche per gli uomini con disabilità, gli ordinari carichi di cura della famiglia e della casa continuano ad essere in larga misura appannaggio femminile. A cosa serve rilevare questo aspetto? Potrebbe servire, ad esempio, a ipotizzare una diversa distribuzione dei carichi in questione che, tradotta in termini pratici, significa maggiore “tempo liberato” per le donne.

Un altro tema interessante che è scaturito dalle interviste è una sorta di “diritto al tempo lento, ai percorsi protetti e alla sosta”, così lo chiama l’architetta Gisella Bassanini, illustrando la necessità, più volte ribadita dalle donne con disabilità, «di attrezzare gli spazi pubblici aperti e chiusi, i percorsi nella città, nelle aree verdi o in prossimità del mare, affinché si possa precedere con lentezza e si possa sostare» (pag. 23). In un mondo che va veloce, non potersi adeguare agli standard di velocità socialmente definiti è percepito e vissuto come un problema. «In particolare la lentezza è un problema in certe situazioni: attraversamenti pedonali; quando è necessario correre e scappare o comunque spostarsi in fretta (terremoti, incendi, ecc...); pioggia e maltempo; folla e ressa; risse e litigi; salire e scendere dai mezzi pubblici» (pag. 62). Non è tanto frequente pensare al rispetto dei tempi delle persone e al “diritto di lentezza” come variabili che incidono sull’accessibilità e l’inclusione, eppure poche cose come il tempo possono creare una frattura tra vita immaginata e vita reale: a nessuno/a è dato di vivere una vita fuori dal proprio tempo.

Tra le cose positive emerse dall’indagine ne voglio segnalare due che sono in qualche modo connesse. La prima è l’importanza attribuita alle relazioni di prossimità. Osserva in merito Bassanini: «La dimensione di prossimità sostiene e rassicura, e ancor più se ci sente fragili e vulnerabili. Il venir meno, o il ridursi, della rete familiare e amicale insieme all’invecchiamento della popolazione - fenomeni che caratterizzano il periodo storico che stiamo vivendo - trovano nella creazione e sviluppo di reti di buon vicinato e di quartiere un valido contrasto al senso di solitudine e isolamento che coinvolge molte persone» (pag. 25). L’altra riguarda le riflessioni emerse riguardo alla sicurezza. Se alcune donne hanno evocato maggiori controlli da parte delle forze dell'ordine come misura di contrasto alla micro criminalità, e per la sicurezza nelle ore serali/notturne, dichiarandosi spaventate dalla presenza di gruppi di persone straniere che sostano a lungo davanti ad alcuni luoghi (come, ad esempio, i supermercati) o in strada, per contro, molte altre «trovano inefficace o poco utile […] la vigilanza intesa come azione organizzata delle forze dell'ordine. Si ritiene al contrario più utile ed efficace un alto livello di senso civico che diventa anche una forma di vigilanza: la cura e l'attenzione verso l'altro, le buone relazioni di vicinato» (pag. 52, grassetti nostri nella citazione). Una delle donne intervistate ha dichiarato «La sicurezza è ovunque e trasversale, in ogni ambito, quello che respiriamo, quello che mangiamo. È ovvio che in termini mediatici per sicurezza ti viene sempre in mente l'incontro con qualcuno che puoi temere ma in realtà la sicurezza è la legalità, l’onestà, l’etica, tutto» (pag. 53). Insomma, c’è chi affronta la paura disponendosi sulla difensiva, e chi (mi sembra di capire che sia la maggioranza) pensa di investire in fiducia... il “brodo di coltura” più adatto a “coltivare” i diritti.

Piera Nobili, l’architetta che ha coordinato e curato il progetto, sottolinea come «purtroppo ancora oggi le politiche ed azioni fatte a favore della disabilità sono pensate per una persona con disabilità generica, senza tenere conto delle differenze di genere, così come le politiche ed azioni fatte a favore delle donne sono pensate per una donna generica, senza tenere conto della disabilità. Le due sfere, invece, andrebbero integrate e fatte interagire affinché l’una informi compiutamente l’altra di sé, ponendo a base un interrogativo che ha guidato anche il presente progetto: quali bisogni e desideri attraversano le donne con disabilità nel pensare alla propria autonomia ed alla possibilità di una vita indipendente» (pag. 33, grassetti nostri nella citazione). Alla fine l’aspetto innovativo del progetto «Stare di casa nella città» è semplicemente questo: invece di inventarsi o tiare ad indovinare quali potessero essere i bisogni e i desideri delle donne con disabilità riguardo alla propria vita, il gruppo di lavoro lo ha chiesto direttamente a loro. Chiedere non è un gesto di umiltà, è piuttosto un atteggiamento di rispetto che, tra le altre cose, azzererebbe il rischio – reale, molto reale – che alcune donne disabili si ritrovino a dover utilizzare la capienza della propria vescica come unità di misura della propria autonomia di movimento.

Simona Lancioni Componente del Coordinamento del Gruppo donne UILDM, responsabile del centro Informare un’h di Peccioli (PI)

Per approfondire:

Un testo di presentazione del progetto.

Un testo di sintesi dei risultati del progetto.

Il rapporto conclusivo del progetto.

Ritratto di lan-s=d2KZu

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