Altri contributi

Sorridere, curare, organizzarsi

Elisa di Lorenzo 

Quando nasce una feminuccia tutti esclamano che è una vera dolcezza!!!

Da subito la si agghinda come una bambola e le si fanno mille buffi gesti pur di farla sorridere.

Crescendo ci si impegna ad ingentilirla e ad abbellirla  sempre più,

a volte anche esagerando, con fronzoli ed  aggraziate  gestualità.

Presto inizia a giocare da sola o in compagnia, ma ai primi gesti un po’ più vivaci o autoritari la si richiama a non comportarsi da  maschiaccio.

Lei, le sorelle e le amichette, sono davvero molto brave perché basta regalarle pentoline e bambole che si divertono alla grande, imitando la mamma, che aveva imitato la nonna ecc. ecc.

Poi arriva l’adolescenza che per il genere femminile corrisponde a donnina e le viene quasi imposto di collaborare in casa mentre deve lottare per vedersi riconosciuti gli stessi spazi e la stessa libertà che vengono concessi all’altro genere umano più fortunato.

Diventa maggiorenne quella ragazzina ma non cambia molto nella sua linea di vita; deve solo continuare a fare “meglio” quello che ha sempre fatto, anche se più meritevole per il suo ottimo profitto scolastico.

Intanto si trova adulta e continua a sorridere anche quando non ne ha voglia, e comprensiva quando vorrebbe protestare ma è troppo tardi e non può deludere di colpo tutti, deve solo imparare a riflettere prima di agire.

La donna quindi viene educata sin dalla nascita a sorridere, a curare, a lottare, ad organizzarsi ed è per questo le si riconosce quel valore in più di saper meglio affrontare le avversità del destino.

Lo smarrimento della donna quando incontra l’handicap è più devastante non solo per se stessa ma anche per le persone a lei vicine che si aspettavano molto da lei, ma la disperazione dura il tempo necessario per darsi una scossa e ripartire da zero.

Sono davvero tantissimi i sogni a cui il genere femminile aspira, ed altrettante svariate responsabilità che la donna è abituata ad assumersi verso il prossimo che riprogramma tutto e continua con più determinazione la sua vita.

Diventa cocciuta ed irascibile la donna disabile perché poco le viene regalato; deve sempre chiedere e  lottare in continuazione ed in ogni direzione per questo la sua personalità migliora, diventando più ricca dentro e  speciale fuori.

Inventa, crea e si impegna a raggiungere gli obbiettivi prefissati con la massima decisione, sa dedicarsi con vera passione nel ruolo di moglie, mamma e nonna e triplica le sue qualità quando diventa assistente di persone più bisognose collaborando con altre donne sane che pur non avendo disagi motori e sofferenze fisiche sono speciali quanto loro.

Aggredire ogni giorno

Beatrice e Marco Perlini

Otto anni fa abbiamo scoperto che Andrea, uno dei nostri tre figli, era affetto da beta-sarcoglicanopatia o LGMD2E, una rara forma di distrofia muscolare. Ero in attesa del mio quarto figlio, che dopo due mesi  è nato.  Leonardo  era bellissimo, “apparentemente sano”, ma anche lui affetto dalla stessa patologia.

In questi nove anni abbiamo conosciuto la malattia, siamo passati da una situazione “abbastanza nella norma” alla carrozzina di Andrea, che da due anni e mezzo  non riesce più reggersi  in piedi. Dopo la diagnosi non avevamo ben chiara la tipologia di questa malattia, ci avevano detto che da adulti questi bambini di solito non riescono a fare le scale, però i medici  avevano anche aggiunto che non potevano dire nulla su come nostro figlio sarebbe stato dopo vent’anni, perché la patologia si evolveva in modo diverso, a seconda dei soggetti coinvolti.

Nel frattempo non ci siamo accontentati di ciò che ci avevano detto in ospedale, tra un ricovero e l’altro io e mio marito ci sentivamo soli, alle volte la solitudine durava  più di un anno. Allora abbiamo cominciato a studiare molto la malattia, prima tramite internet, poi frequentando varie associazioni e congressi. Abbiamo cominciato ad acquistare una maggior consapevolezza del cammino che avevamo difronte, a conoscere le problematiche relative alla gestione di nostro figlio e alle strategie per superarle. Qui devo dire che è stato fondamentale per noi  il confronto con altri genitori.

Due anni fa, io e mio marito, siamo stati due dei soci fondatori della nuova sezione di Sondrio dell’Unione italiana per la lotta alla distrofia muscolare, dopo alcuni anni di collaborazione con la Uildm di Lecco,  per la raccolta fondi a sostegno della ricerca scientifica promossa da Telethon. Contemporaneamente abbiamo  anche deciso di occuparci  in modo specifico di questa patologia, perché le beta-sarcoglicanopatie sono definite neglette, a riflettere una pesante assenza sia di ricerca che di diagnostica sul territorio europeo.

Abbiamo creato il sito internet www.beta-sarcoglicanopatie.it, per dar voce a questa patologia. Desideriamo promuovere la ricerca scientifica specifica sulla patologia, metterci in contatto con altre famiglie che lottano contro questa malattia e, dalle statistiche, ci risulta che ce ne sono una quarantina in Italia e 350 nel mondo. Il nostro sito è molto interattivo, si possono commentare le notizie in esso contenute, aggiungerne altre e inserire nuovi articoli, tutto questo per assemblare il più possibile le notizie disponibili sulla malattia e mettere in comunicazione i pazienti con il mondo della ricerca, delle associazioni, dell’informazione e dei servizi.  L’utilizzo dei social network si sta rilevando fondamentale, l’utilizzo di facebook e di altre reti sta evidenziando come si può entrare in contatto diretto con persone lontane e che non parlano la nostra lingua, scambiando informazioni in tempo reale e costruendo collaborazioni rapide ed efficienti.

Inoltre io e mio marito abbiamo sempre avuto la passione per la montagna, trekking in estate, sci d’alpinismo  in inverno. Poi, a causa della malattia dei nostri figli, abbiamo dovuto abbandonare le nostre amate montagne. Ora abbiamo trovato un modo per tornarci: la joelette, un ausilio mono-ruota trainato da tre persone. Dal 2010 abbiamo organizzato una serie di camminate per disabili con cinque di questi ausili e pensiamo anche di utilizzarli nel periodo invernale, sostituendo la ruota con uno sci. Un nostro desiderio è partecipare al pellegrinaggio spagnolo di “Santiago di Compostela”, pensiamo negli ultimi 100 km del suo percorso.

Da tutte queste  esperienze emerge un nostro pensiero preciso: “la malattia non si subisce, ma si deve aggredire ogni giorno!”

Tutto il pacchetto

Simona Lancioni

Se non sei eccezionalmente brutta, né preoccupantemente stupida, forse hai la sindrome da crocerossina (una sorta di impulso compulsivo a prendersi cura degli altri). Le letture che ancora oggi molti danno della scelta di alcune persone di accompagnarsi ad una persona con disabilità tutto sommato non sono particolarmente fantasiose. Inizialmente pensavo che questi storti pensieri li avesse solo chi non ha mai avuto a che fare direttamente con la disabilità. Invece ho scoperto che anche tra le stesse persone disabili c’è chi non disdegna di farli propri.

Sempre attingendo allo sterminato serbatoio dei luoghi comuni, se stai con una persona con disabilità sei sicuramente una persona molto brava e disponibile a prenderti “tutto il pacchetto” (traduzione: ad accollarti qualsiasi onere di carattere assistenziale). Se provi a spiegare che non sei così brava, loro ti spiazzano sostenendo che – vista l’incombenza che ti sei presa – puoi anche concederti di avere un caratteraccio. Se invece provi ad insinuare che non ragioni in termini di “pacchetti” perché i contenuti di un rapporto vanno definiti in base all’idea che le persone interessate hanno dello stare insieme, allora ti ascoltano senza capire, neanche stessi rispondendo in tortoliese.

Forse potremmo iniziare proprio da qui, dallo “spacchettare i pacchetti”. E non penso solo ai rapporti di coppia. Penso anche, ad esempio, al “pacchetto maternità”, dove se metti al mondo un figlio – e non vuoi essere colpevolizzata – devi anche essere disponibile a ridurre o lasciare il tuo lavoro retribuito. Penso ai “pacchetti regalo” per i bimbi maschi, sempre pieni di macchinine e costruzioni ma mai di bambole, salvo poi sorprenderci se quando diventano adulti non considerano il prendersi cura una loro competenza.

Considerando lo specifico aspetto dell’assistenza alle persone con disabilità grave, è abbastanza difficile che un “pacchetto preconfezionato” contenga proprio ciò di cui ha bisogno chi presta assistenza (anche perché in genere i “pacchetti” non sono pensati in funzione loro ma, se occorre, a loro discapito). Né, d’altra parte, è così scontato che risponda almeno alle esigenze di chi la cura la riceve (provate a fare un sondaggio tra le persone disabili e chiedete loro se, ad esempio, gradirebbero di essere assistiti dalla propria madre vita natural durante, come previsto dal “pacchetto madri di figli disabili”). La retorica dell’abnegazione, dello spirito di sacrificio, dell’amore che se è vero non si tira mai indietro – ancora in larga prevalenza declinati al femminile –, serve a mantenere ancora in vita un sistema dove viene concesso per favore ciò che si dovrebbe poter esigere come diritto. Oltre agli inevitabili rilievi etici, è utile mettere in luce come questo sistema porti inevitabilmente all’instaurazione di rapporti di dipendenza reciproca. Ferma la disponibilità a venirsi incontro, ferme la solidarietà e l’attenzione all’altro, ferme le responsabilità che le persone spontaneamente scelgono di assumersi, se ami qualcuno non lo rendi dipendente da te. Che tu sia un partner, un genitore, un parente, un amico, ecc., il più grande regalo che puoi fare a te stesso e a chi ami è fare in modo che i vostri rapporti siano l’esito di una scelta spontanea e non di una situazione di bisogno. La posta in gioco è la libertà ed il rispetto della dignità delle persone (di quella con disabilità e di quella le sta accanto). Concetti troppo grandi ed elevati perché un qualche “pacchetto” possa contenerli.

Le mille sfaccettature

(contributo firmato)

Bruna, già madre di una bimba di sette, quando ha saputo che il secondogenito che attendeva era  affetto da Distrofia di Duchenne, ha deciso di abortire. Il fratello di Bruna è stato zio per pochi anni, dopodiché è mancato per la stessa patologia. Per alcune amiche Bruna è stata saggia, per altre è un’assassina, un’egoista, una codarda.

Lucia, dopo un’estenuante trafila durata dieci anni, ha ottenuto in adozione una bimba con Sindrome di Down. Lei e suo marito sono finalmente genitori, una speranza che cominciava a vacillare. Lucia si è conquistata il titolo di mamma dell’anno. Per molte altre mamme Lucia è un’eroina, per alcune una pazza.

Erica, ha una mamma con la poliomielite. Quando era alle elementari, era la mamma più bella e più brava del mondo. Alle medie era meglio che non si facesse più trovare fuori da scuola ad aspettarla e che facesse andare papà a parlare con gli insegnanti perché era stanca di essere derisa e presa in giro dalle compagne per avere una mamma “storpia”. Ora ha sedici anni. Per le compagne del liceo e per il suo ragazzo risulta orfana di madre: la signora che sta in casa con lei è una zia che deve accudire.

Adele ha sempre avuto un bel rapporto con sua madre paraplegica. Quando una compagna dell’Istituto tecnico si è permessa di definire la madre di Adele in tono sarcastico diversamente abile, le ha subito risposto a tono: “Meglio una madre diversamente abile dignitosa, che una madre normale diversamente zoccola”. [La signora in questione è nota nell’ambiente scolastico per filarsi alcuni docenti].

Laura convive con un compagno tetraplegico da dieci anni. L’ha conosciuto in un istituto di riabilitazione. Per lei è stato amore a prima vista. Ma non aveva il coraggio di farsi avanti. Una collega che aveva capito la serietà della faccenda, ci ha messo lo zampino. “Non è stato semplice conquistare la ragione di Roberto, ma fortunatamente, a volte, vince il cuore”. Sono una coppia affiatata e felice. Ma per la maggior parte delle altre colleghe Laura resta una squilibrata.

Sandra ha quarant’anni, è una stimata dirigente infermieristica presso un noto ospedale pediatrico. Ha un compagno, ma vive da sola e non vuole “metter su famiglia”. Il suo lavoro è la sua vita.

Aveva un fratello sordo-cieco di cinque anni più giovane. Lo andava a trovare a Natale presso l’istituto dov’era vissuto per circa vent’anni, più per curiosità che per affetto. Dal momento della sua nascita, Sandra, per la madre, non era più esistita. Aveva cercato in vari modi di riconquistarsi un po’ della sua attenzione, ma niente. Non le era permesso nemmeno di avvicinarsi al fratellino perché inaffidabile e incapace. A diciotto anni uscì di casa ringraziando il padre per averla sostenuta nel suo progetto di indipendenza.

Betty ha una leggera tetraparesi spastica che non le favorisce un fluente eloquio e una deambulazione aggraziata. La madre l’ha sempre incentivata ad essere autonoma e intraprendente nella vita. Ha vent’anni, studia presso l’Università in una città lontano dalla sua dove condivide l’appartamento in affitto con una coetanea spagnola. Tra le due c’è stato subito feeling e sono diventate buone amiche. Si scambiano favori, vestiti, trucchi e, soprattutto, ragazzi! “Javi è andata oltre le apparenze, ha capito subito che tipo sono”, afferma Betty. “Grazie a Betty soj popular diventata fra i chicos. Fanno la fila per provar nuova esperienza con lei!”, scherza  [o no?], Javiera.

Io, donna senza una disabilità certificata, accolgo queste esperienze. Ascolto le storie delle protagoniste. Nel silenzio della mia intimità rivedo, ad uno ad uno, i volti di chi le ha raccontate e quelli di chi le ha giudicate. Cerco di trovare il profilo migliore o quello peggiore di questi volti.

Proprio non riesco. Per me esiste semplicemente un volto. Il volto di una persona, della sua storia, della sua vita. Ci vedo mille sfaccettature, mille sfumature… … “Mille e non più mille”?

Mi avvalgo della facoltà di non giudicare. Non ne ho la competenza, tanto meno il diritto!

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