"Bruciare tutto" anche per le donne con disabilità

share on:

di Giorgia Meneghesso

Il femminicidio di Giulia Cecchettin e il grande coinvolgimento pubblico e mediatico che ne è seguito mi hanno portata per l'ennesima volta a riflettere sul fatto che la violenza sulle donne sia ancora un problema enorme e su quanto ancora il patriarcato e la cultura dello stupro siano alla base della nostra società, ma anche che di violenza sulle donne disabili non si parla mai.

È bene iniziare quindi presentando alcuni dati esposti dalla ministra Locatelli durante la riunione straordinaria dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità: il 65,3% delle donne con disabilità ha subito violenza e più dell’87% dichiara di averla subita da chi era loro vicino. I dati sono stati raccolti da Fish (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) su un campione di 519 questionari compilati da altrettante donne con disabilità. (ndr: i dati sulle violenza sulle donne disabili non sono disaggregati rispetto a quelli generali e non sono facilmente rintracciabili).

Com’è possibile quindi che, di fronte a queste percentuali, sia un fenomeno ancora così sconosciuto?

La violenza nei confronti delle donne disabili è subdola ed è un fenomeno sommerso per diversi motivi.

Quando la tua vita dipende da qualcun altro anche per le più basiche azioni quotidiane, quando non ci sono sufficienti fondi che ti garantiscano una vita indipendente e ti permettano di scegliere da chi e come essere curata, finisce che il/la partner e i famigliari diventano i tuoi caregiver, dai quali non ci si può allontanare in caso di maltrattamenti. In questi casi si possono instaurare rapporti disfunzionali che portano ad atti di violenza verbale, segregazione e violenza fisica. Dal semplice allontanamento di un ausilio per non permettere la mobilità, al rifiuto delle cure, alle violenze psicologiche fino alle percosse e al femminicidio.

Ma scendiamo nel dettaglio perché la violenza nei confronti delle donne disabili ha aspetti peculiari.

In alcune forme di disabilità una donna può non avere il completo controllo del proprio corpo, che quindi deve essere curato e maneggiato da altri, esposto a sguardi e a tocchi non graditi. La facilità con cui in queste situazioni si diventa vittime di commenti inappropriati e di tocchi inopportuni, fin anche di violenza sessuale, senza che nessuno se ne accorga e/o che si abbia la possibilità di denunciare è altissima.

Andiamo oltre.

C’è una violenza nascosta perché attuata dagli operatori delle strutture nei confronti di donne che in molti casi non hanno gli strumenti intellettivi per comprendere quello che sta succedendo. Ma d'altronde, anche nel caso si fosse consapevoli di tutto ciò e si volesse denunciare, mancherebbero le possibilità di farlo.

Chi non si può muovere di casa, infatti, non ha l’opportunità di recarsi nei centri antiviolenza e/o dai carabinieri. In caso ci si riuscisse, pochi CAV sono accessibili e provvisti di operatori in grado di comprendere le sfumature sottili della violenza subita dalle donne con disabilità, di interpreti LIS o di altri strumenti per le persone sorde non segnanti o le donne cieche.

Le donne disabili vengono ancor più difficilmente credute perché si minimizzano le violenze, mischiandole ad atti di cura e giustificando chi le attua.

Spesso, per esempio, nei media accade che episodi di violenza vengano giustificati con la scusa della fatica e della frustrazione da parte del caregiver di avere un/una parente, un/una amico/a o un/una partner disabile. È sempre di tempi recenti la notizia che una donna con una patologia neurologica, Rita Talamelli, è stata uccisa dal marito. Negli articoli di giornale che ne parlavano l’omicida veniva sempre presentato come "logorato" dalla malattia della moglie: “un delitto legato alle particolari condizioni di salute della donna”, “lo scenario mostra l’evidente debolezza del carnefice. Il delitto sarebbe maturato in un coacevo di affetto e malessero, abnegazione e pena...per la malattia della donna”.

Ci sono quindi femminicidi di serie A e di serie B.

Rita non valeva meno di Giulia perché donna disabile.

Niente può giustificare un assassinio. Eppure, nel sentire comune, queste violenze vengono considerate meno importanti perché il filtro dell’abilismo porta a far empatizzare la gente con il carnefice, spesso presentato come "stanco, sofferente ed esasperato" a causa dell'attività di cura nei confronti della persona disabile.

Come risulta evidente, infatti, non si percepisce questo né come un caso di femminicidio né come un semplice omicidio legato a un crimine. Parliamo invece di un’uccisione strettamente connessa alla disabilità e alla visione che se ne ha a causa all’abilismo. Le donne disabili sono vittime infatti anche di questo tipo di violenza, non riconosciuta dai più, dovuta alla doppia discriminazione a cui vengono sottoposte, cioè abilismo sommato al sessismo, che si intrecciano in modo inscindibile fino a causarne l’invisibilizzazione. In una prospettiva abilista, la disabilità è vista come un difetto invece che come un aspetto della varietà umana: il corpo-mente non disabile è considerato la norma, quindi ciò che vi si discosta è visto come inferiore, negativo e ha meno valore.

L'abilismo è un’oppressione sistemica, cioè si manifesta a tutti i livelli della società, così come il sessismo. In quest’ultimo le donne vengono considerate inferiori a causa del loro genere. È quindi facile immaginare come, con la combinazione di questi due paradigmi culturali, le donne con disabilità diventino praticamente invisibili. Se poi ci aggiungiamo una spruzzata di qualche ideologia che presenta le persone con disabilità come "angeli asessuati", facciamo scacco matto.

Vi porto alcuni esempi: le donne disabili sono vittime di un doppio standard di valutazione rispetto alle donne non disabili.

Mentre per le donne senza disabilità la maternità, nella società patriarcale in cui viviamo, viene ancora considerata come la principale realizzazione della vita e il ruolo di cura come loro responsabilità quasi esclusiva, le donne con disabilità vengono considerate non valide come madri perché viste solo come soggetti da curare e quindi non in grado di badare a qualcun altro.

Inoltre, spesso la violenza di genere nasce dal senso di possesso e dall’incapacità da parte degli uomini di controllare i propri impulsi, nonché dal considerare le donne solo come oggetto sessuale, derivanti da secoli di cultura patriarcale e dello stupro. Da qui fenomeni come il cat-calling, ovvero tutti quei commenti sull’aspetto fisico o sull’abbigliamento, i gesti, i fischi, fino ad atti di stalking verbale e/o fisico che le donne ricevono in maniera indesiderata dagli uomini, per strada, nei parchi, nei locali, sui mezzi pubblici etc. Le donne con disabilità, invece, vengono spesso desessualizzate perchè in molti casi abitano un corpo non conforme che non considerato attraente, finendo per essere viste come “mezze donne”, per cui non passibili di violenza di genere in tutte le sue forme, ma invisibilizzate e rinnegate nella loro femminilità. Questo produce diverse conseguenze agghiaccianti. Per esempio alcune donne disabili possono paradossalmente arrivare a desiderare di subire cat-calling per sentirsi valide e attraenti; oppure porta anche le donne non disabili che si definiscono femministe a non comprendere le istanze delle donne disabili, forse proprio perché abituate dalla società stessa a non considerarle abbastanza.

Quante volte mi sono sentita dire da altre donne: ”Sei fortunata a non subire il cat-calling o a non dover aver paura di essere aggredita sessualmente”.

Sicuramente sono due situazioni in cui nessuna vorrebbe mai trovarsi, ma una frase del genere fa capire che non si ha idea che anche la desessualizzazione è una forma di violenza di genere che per di più mina la propria identità e che deriva, in fondo, dalla stessa radice sessista dell’oggettificazione del corpo femminile.

Un altro esempio lampante lo abbiamo visto proprio il 25 novembre, Giornata Internazionale per l'Eliminazione della Violenza sulle Donne: si sono tenute, come di consueto, manifestazioni in tutta Italia, eppure in molte di esse l’accessibilità per tutti i tipi di corpi e di disabilità ancora non è prevista, nemmeno dai circoli femministi stessi che forse non comprendono ancora del tutto le istanze delle donne disabili, invisibilizzandoci per l’ennesima volta e non permettendoci di essere partecipi e di far sentire anche la nostra voce.

In seguito a una presa di coscienza collettiva di questa mancanza gravissima, alcune attiviste con disabilità, prima fra tutte Marta Migliosi, hanno scritto una lettera che spiega la situazione, ma purtroppo la risposta dei circoli femministi non è pervenuta in modo soddisfacente, anzi in alcuni casi si è rovesciata la responsabilità sulle persone disabili stesse. Così sono state organizzate in modo spontaneo delle dirette Instagram da parte di donne disabili e neurodivergenti che hanno dialogato sull’accessibilità degli spazi di elaborazione politica e sulla necessità di far conoscere anche le proprie istanze in un'ottica di intersezionalità. La grande affluenza che ne è derivata fa capire quanta necessità ci sia di parlare di questi temi e che le donne disabili e neurodivergenti non sono più disposte a tacere e a essere messe da parte.

È fondamentale che le nostre istanze vengano accolte anche dalle donne non disabili nei centri transfemministi, nella politica, nei tavoli di lavoro e che poi tutto ciò si traduca in effettivi cambiamenti strutturali ad esempio:

  • la formazione del personale dei CAV sulla specificità di alcuni tipi di violenza e sulle esigenze di accessibilità delle donne con disabilità
  • l'istituzione di una figura femminile specializzata sulle diverse dinamiche di violenza in tutti i comandi di polizia e nelle stazioni dei carabinieri
  • la formazione delle forze dell’ordine dal momento che sono ancora impregnate di patriarcato e paternalismo
  • il supporto psicologico alle donne disabili per aumentare la consapevolezza dell'esistenza di diversi tipi di violenza a cui possono essere sottoposte, anche nelle associazioni o negli ospedali
  • lo sviluppo di tecnologie che permettano a tutte di sporgere denuncia in modo autonomo e tutelato

Insomma, come si vede, il lavoro da fare è capillare e deve essere responsabilità di tutta la società, perché stiamo parlando di diritti che dovrebbero già esistere e che riguardano la collettività, non solo la singola persona. Ciò che abbiamo in comune è un corpo che non è sempre e per sempre quello immaginario e ideale che ci viene richiesto: ecco perché queste cose riguardano tuttə.

Ritratto di gruppodonneuildm

gruppodonne