Femminismo, bagagli a mano e donne con disabilità

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di Simona Lancioni

(componente del Coordinamento del Gruppo donne UILDM)

 

Una recente inchiesta sul femminismo, pubblicata dal settimanale «L’Espresso», ci induce ad interrogarci sulla sua attualità. E, visto che ci siamo, anche sui suoi contatti con il “mondo” della disabilità.

 

Una donna con bagaglio a mano attende di prendere l’aereo. La donna è fotografata in piedi, di spalle mentre osserva, attraverso una vetrata, un aereo appena decollato. Una donna con bagaglio a mano attende di prendere l’aereo. La donna è fotografata in piedi, di spalle, mentre osserva, attraverso una vetrata, un aereo appena decollato.

 

«Le donne hanno perso» è il titolo dell’inchiesta pubblicata su «L’Espresso» (n. 41, 15 ottobre 2015) a firma Sabrina Mirandi. L’occhiello fornisce maggiori dettagli: «Mezzo secolo di femminismo, ma le discriminazioni non sono scomparse. Sul lavoro, in famiglia, in politica, ovunque. E, soprattutto, la coscienza comune sembra a torto darle per scontate».  Il servizio è rilanciato anche nel sito del settimanale, ma con un titolo diverso, «Donne, il femminismo ha perso?», che trasforma l’affermazione in un dubbio da indagare.

Vero è che oggi il termine femminismo per molte e molti ha assunto una connotazione negativa. Vi è un generale consenso nel riconoscere le conquiste del passato (come, ad esempio, la legalizzazione del divorzio e dell’interruzione volontaria di gravidanza), ma è anche abbastanza diffusa la convinzione che le femministe attuali siano arrabbiate e aggressive, che odino gli uomini… che, tutto sommato, oggi le donne fanno quel che vogliono e non ci sia niente da rivendicare.

Stereotipi, certo, e la circostanza che alcune donne possano aver interpretato in modo discutibile la causa originaria, non inficia la bontà di quest’ultima. Se ancora oggi essere donna può significare guadagnare meno rispetto agli uomini a parità di mansioni; essere spesso costretta, per mancanza di tutele e di servizi, a dover scegliere tra lavoro e maternità; avere minori possibilità di accesso ai ruoli di potere; sottostare ad un’iniqua spartizione dei lavori domestici e di assistenza di figli, persone con disabilità e persone anziane; essere esposte a violenza e continuare ad assistere, anche in Parlamento, a comportamenti sessisti; vedere la possibilità di abortire (che, per Legge, dovrebbe essere garantita) venir messa costantemente in discussione dal massiccio ricorso all’obiezione di coscienza… giusto per citare i fenomeni più macroscopici … beh, se tutto questo è vero – e purtroppo è ancora vero – continua ad essere necessario rivendicare i diritti delle donne e vigilare su di essi.

Non sono le istanze femminili ad essere usurate, probabilmente lo è il termine femminismo. Se ogni volta che lo evochi ti ritrovi a dover fare i conti con un certo tipo di immaginario, e a spiegare che la tua posizione non corrisponde affatto a certi stereotipi, allora cominci ad accarezzare l’idea che i diritti delle donne possano essere rivendicati anche senza l’insegna del femminismo. Sono infatti tante le persone – donne e uomini – che prestano attenzione e sono attive sul fronte della disparità tra i generi ma non si definiscono femministe/i. Se il femminismo è diventato una “valigia” troppo pesante, loro scelgono di portarsi dietro solo ciò con cui si identificano veramente, scelgono di “viaggiare col solo bagaglio a mano”.

Alcune donne con disabilità hanno accusato il femminismo di non essersi occupato – e di non occuparsi – di disabilità, e anche i movimenti delle persone con disabilità di non porsi questioni di genere. La qual cosa è ancora abbastanza vera, anche se ci sono significative eccezioni (come il “Rapporto Ombra sull’implementazione della Convenzione ONU sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna – CEDAW”, del 2011). In passato le persone con disabilità vivevano segregate negli istituti o in famiglia, e, anche quando riuscivano a studiare, le possibilità di partecipare attivamente alla vita sociale (intesa in senso ampio) erano abbastanza ridotte. Oggi le persone disabili hanno accesso alle scuole di tutti e tutte, e hanno a disposizione molti strumenti informatici che consentono di aggirare le barriere fisiche che ancora ci sono, eppure non vedo molte donne con disabilità attive nel rivendicare i diritti delle donne (anche disabili), e anche quando decidono di attivarsi, spesso lo fanno semplicemente come donne, senza porre a tema la disabilità. Probabilmente è una questione di Maometto e di montagna: se le femministe non si occupano di disabilità, potrebbero essere le donne con disabilità a portare la propria peculiarità all’interno del movimento femminista. Quando, come Gruppo donne UILDM, lo abbiamo fatto, abbiamo ricevuto sempre risposte positive. Nel 2006 abbiamo coinvolto la “Casa della donna” di Pisa nella realizzazione del seminario “Ruoli imposti e ruoli negati”; nel 2009 abbiamo collaborato alla realizzazione della “Staffetta delle donne contro la violenza sulle donne” organizzata dall’Unione Donne Italiane (UDI); nel 2012 abbiamo sottoscritto l’appello “Mai più complici” promosso dal movimento Se Non Ora Quando (SNOQ); nel 2013 assieme all’Associazione Femminile Maschile Plurale, all’Associazione Liberedonne, a collettiva_femminista, alle Donne in nero Ravenna, alla Fidapa Ravenna, alla Fondazione Gentes de Yilania, a noiDonne 2005 e all’UDI Ravenna abbiamo elaborato un documento congiunto per contrastare una proposta – avanzata dal Comitato di bioetica della Repubblica di San Marino (dietro indicazione di alcune persone disabili) – di modificare in termini restrittivi la disciplina del cosiddetto “aborto terapeutico”; nel 2014 abbiamo seguito lavori scaturiti del “Progetto Aurora” in tema di violenza di genere e disabilità realizzato dall’Associazione Frida, e, sempre nel 2014, abbiamo preso parte al 1° Workshop Nazionale dedicato al tema “Donne con disabilità: inventare e gestire percorsi di uscita dalla violenza”; ora capita anche che siano altri organismi femminili a cercare noi: la “Rete delle donne AntiViolenzadi Perugia sta organizzando, per il prossimo 28 - 29 novembre, il 2° Workshop Nazionale sul tema “Violenza di genere e donne con disabilità: non porgere l’altra guancia”, e ci ha chiesto di partecipare.

Il riferimento a Maometto e la montagna vale anche, ovviamente, per i movimenti e le associazioni delle persone con disabilità: se questi non si pongono questioni di genere (o, meglio ancora, di generi, giacché non ci sono solo gli uomini e le donne), che siano le donne e gli uomini disabili attenti a queste problematiche a sollevarle. Molto utili nella creazione e nel rafforzamento dell’autoconsapevolezza individuale sono i gruppi di consulenza alla pari tra donne disabili, anche se è bene tenere presente che sino a quando la riflessione rimarrà circoscritta nelle “stanze” della disabilità è difficile che si realizzi un vero cambiamento sociale; perché questo accada, infatti, è necessario che la riflessione diventi collettiva e condivisa.

C’è poi un’importantissima riflessione elaborata dalle donne nell’ambito degli studi di genere che è stata ripresa dal Movimento mondiale delle persone con disabilità, e che permea l’attuale definizione della disabilità stessa. Sono state queste donne le prime ad insistere sulla distinzione tra ciò che vi è di biologico (naturale) – il sesso di appartenenza – e ciò che invece è socialmente costruito – il genere e le aspettative di ruolo ad esso associate, quelle per cui se sei maschio ancora oggi ci si aspetta, ad esempio, una censura dei sentimenti (“non piangere, sii uomo!”), e se sei donna una predisposizione all’accondiscendenza, alla remissività, alla compostezza (“smettila di urlare, non fare il maschiaccio!"). Questa distinzione è basilare perché se è impossibile (o, comunque, piuttosto complesso) cambiare la natura, modificare le regole e le aspettative sociali (a partire da quelle che generano svantaggi e discriminazioni) è, o dovrebbe essere, un’impresa fattibile. Ebbene, anche il nuovo paradigma della disabilità si regge proprio su questa distinzione tra dato biologico – le menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali – e costruzione sociale – i diversi tipi di barriera che le persone con disabilità incontrano nel loro relazionarsi col mondo. Un’impostazione, questa, formalizzata nell’ICF (la Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute), e mantenuta nella Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (ratificata dall’Italia con la Legge 18/2009). “Per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri”, specifica infatti il primo articolo della Convenzione, e le conseguenze – sotto un profilo culturale – sono dirompenti: molti degli svantaggi che prima erano considerati come una naturale conseguenza dell’avere una disabilità, ora diventano responsabilità di una società che nel suo definirsi e costruirsi non presta attenzione alle presone con disabilità, e “semina ostacoli” sul loro cammino. Se dunque il femminismo non ha espresso una riflessione specifica sulla disabilità, il riverbero delle sue elaborazioni teoriche ha influito in modo inequivocabile e decisivo nella definizione del nuovo paradigma della disabilità. Dobbiamo inoltre osservare che a quella lacuna teorica non ha corrisposto un “vuoto pratico”: le donne sono state, e continuano ad essere, coloro che maggiormente si prendono cura – nel senso di prestare assistenza – delle persone disabili (spesso pagando prezzi altissimi in termini di libertà individuali, e non solo). Un bilancio intellettualmente onesto dovrebbe considerare anche questo aspetto.

«Il femminismo ha perso?», si chiedeva dunque Sabrina Mirandi nell’inchiesta condotta per «L’Espresso», «Il femminismo ha modificato la percezione di sé di tutte le donne. Ha permeato i comportamenti quotidiani», osserva la scrittrice Lidia Ravera interpellata dalla giornalista, e aggiunge: «Le nuove proteste non si consolidano? Non vale solo per il femminismo, ma per tutti i movimenti di oggi: non riescono a compiere il salto dallo spontaneismo all’organizzazione. Il femminismo è una rivoluzione interrotta, non fallita. Quando sarà compiuta la vita avrà, finalmente, due sguardi» … e, forse, considerando i suoi influssi indiretti su altre realtà, anche più di due.

 

Ultimo aggiornamento: 27 ottobre 2015

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